Il kintsugi ci insegna che le cicatrici possono essere preziose.
L’oro è il metallo prezioso per eccellenza, da sempre nella storia dell’umanità associato a concetti di benessere, lusso e potere. I primi ornamenti in oro risalgono infatti all’età della pietra e già nel 500 a.C. furono coniate le prime monete.
L’oro è da sempre largamente impiegato nella produzione di gioielli, circa il 50% del totale estratto. Ma gli usi che ne ha fatto l’uomo nel corso dell’evoluzione sono stati davvero molteplici.
Molto interessante ad esempio è il particolare impiego dell’oro nella cultura giapponese. Ci riferiamo al Kintsugi, antica tecnica e filosofia di derivazione zen. Il termine kintsugi deriva dall’unione di Kin (oro) e Tsugi (ricongiungere). Letteralmente consiste nel riparare con l’oro gli oggetti rotti, riunendo i frammenti di ceramica e colmando le crepe con resina laccata e polvere d’oro. Il risultato della riparazione è quindi un oggetto nuovo, unico e impreziosito da irregolari venature dorate. Un ottimo modo, diremmo oggi, anche per dare valore al riciclo.
L’arte del Kintsugi risale al XV secolo, quando un sovrano molto affezionato alla sua tazza da tè decise di affidarne la riparazione ad alcuni artigiani giapponesi. Motivati dall’insistenza del sovrano, ebbero l’idea di utilizzare come collante una particolare resina, nota come urushi, sulla quale veniva poi fatta cadere la polvere d’oro. L’obiettivo di questa riparazione non era quindi nascondere il danno, ma al contrario metterlo in risalto, al punto da elevare il valore estetico dell’oggetto rotto.
Un’esigenza pratica viene così sublimata e resa arte, incarnando pienamente i valori della filosofia zen, alla quale infatti il Kintsugi si ispira. Racchiude in modo particolare il concetto del “Mono no aware”, con il quale si intendeva una forma di empatia verso gli oggetti, la cui osservazione malinconica si trasforma lentamente in una estatica contemplazione della loro decadenza. Accettare la transitorietà dell’esistenza si traduce insomma in un approccio sereno e consapevole alla vita. Per questo motivo l’arte del kintsugi viene spesso utilizzata come simbolo e metafora di resilienza. Sembra suggerire una riconsiderazione del concetto stesso di sofferenza. Non necessariamente un sentimento sterile, ma piuttosto un’occasione per riconnettersi alla propria anima, comprendersi più profondamente e ridisegnare la propria esistenza. Il dolore provato e le cicatrici che ne restano, non sono qualcosa di cui vergognarsi. Al contrario, liberando la mente dalla ricerca ossessiva della perfezione, scopriremo che la nostra unicità si cela proprio nelle crepe della nostra anima.
Ancora una volta l’essere umano si appropria del nobile metallo e lo rende parte della sua cultura, ammantandolo di significati simbolici che vanno oltre la sua raffinata apparenza. L’oro utilizzato nel Kintsugi è infatti quell’elemento che trasforma un vaso rotto in qualcosa di unico e prezioso, ricordandoci quanto curare con amore le nostre ferite sia indispensabile per tornare alla vita, forti e impreziositi dalla consapevolezza di noi stessi.